I Custodi di Elend: le rovine di Christalia

20.03.2014 19:55

Tutto inizia quando qualcuno s'introduce nella fatiscente capanna di Baba Atsu, una vecchia erborista dal passato misterioso, e la uccide a sangue freddo. La sua morte risulta vana. Ciò che cercano gli assassini è già fuggito al loro sguardo ed è ormai in viaggio verso Halek, un malfamato porto dove spesso avvengono traffici clandestini di merce rubata e crimini tra i più efferati senza che nessuno osi intervenire, neanche il presidio militare che ormai da anni assedia la regione. Aruna, zingara nascosta sino ad allora tra la fitta vegetazione delle foreste del Terzo Regno, si ritrova catapultata in una serie di imprevedibili eventi che la conducono sino alla lontana città di Nassur, una fortezza costruita tra le catene vulcaniche che costellano il Deserto dei Gigli, più in là degli Oblivi, città ormai dimenticate dove si ammassano i reduci delle sanguinose guerre che dilaniano il paese. Inizierà a quel punto un viaggio che la condurrà verso isole leggendarie, accompagnata da una singolare compagnia capitanata da Ashram, Cavaliere dei Draghi,Re di Nassur. Scoprirà di essere legata indissolubilmente ad un'antica profezia che profetizza il ritorno degli Elementari, creature arcane che si spera possano ristabilire l'antica Oligarchia nelle terre di Elend, liberandole dal dominio incontrastato di Zyrian Wyria. La verità che l'attende va però ben oltre la sua immaginazione e tra duelli, trappole, misteri ed incredibili avventure scoprirà la verità sulle sue origini e gli straordinari poteri che possiede e che, in qualche modo, sembrano nascere da un curioso medaglione che porta con sé sin da quando ne ha ricordo.

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Recensioni:

Odio quelli che leggono un libro e poi , non solo lo sconsigliano, ma gli fanno una bruttissima recensione solo perchè non li hanno colpiti. Le recensioni dovrebbero consigliare gli acquisti, ed è proprio quel che sto per fare: comprate I Custodi di Eland! Se amate il fantasy classico, sarete felici di una novità sul genere. Se invece non vi siete mai avvicinati , è ora di provare: avrete una piacevole sorpresa!


Estratti:

Tutto era iniziato vent’anni prima, in un’assolata mattina di primavera inoltrata, allorquando il pirata, allietato dalla fresca brezza che gli solleticava il naso, aveva scelto un gruppetto isolato di scogli aguzzi per una breve sosta fuori programma. Le strette insenature lungo le coste della città di Dalmar, uno dei più famosi porti di Madi Bazar, erano luoghi sicuri dove attendere propizi eventi. Dall’isola lontana partivano ogni giorno mercanti dalle stive ricolme di spezie e pozioni pregiate. Nessuno ad Hydrill poteva vantare una tale maestria nella produzione di sortilegi, sigilli sacri, intrugli e veleni così, per quanto il prezzo fosse proibitivo, non mancavano acquirenti disposti a sborsare cifre esorbitanti pur di entrarne in possesso. Quelle acque, oggi infestate da mostri marini e sirene, erano rotta di festose compagnie mercantili in cerca di riparo. Viaggiavano alleggerite da carichi preziosi, ma con bauli stracolmi di moneta sonante ed il nostro pirata, pur conoscendo i rischi di tali sordide imprese, non intendeva lasciarsi sfuggire la possibilità di intascare più di quanto i suoi occhi vanesi potessero sperare.

Quel giorno la temperatura mite e le numerose fantasie su bottini non ancora conquistati avevano messo tutti di buonumore. Scatcut spipacchiava alle spalle del timoniere dalla sua inseparabile Benson, splendida caracca a tre alberi, con le mani infilate nelle larghe tasche del pantalone e nessuno avrebbe mai sospettato fosse quello il preludio di una fine indecorosa. I lunghi capelli verde smeraldo al vento, le code scure della bandana pronte a librarsi ad ogni spiffero, la destra poggiata con fierezza sull’elsa dorata della sua scimitarra.

«Ormeggiare la nave!», ordinava sorridente dalla sua postazione, godendosi la vista delle onde schiumose e delle sinuose movenze di una sirena dalla folta chioma dorata, che festosa nuotava in superficie lasciandosi riscaldare dai raggi del sole.

«Ormeggiare la nave, topi di fogna!», ripeteva alla ciurma Martino Buono, nostromo del vascello.

«Acconigliare i remi!», tuonava nuovamente il Capitano, godendo segretamente del suono della sua stessa voce.

«Acconigliare i remi, manigoldi!», ringhiava di rimando Martino, agitando la pesante frusta stretta nella mano e lasciando che, a dettare il tempo di quelle veloci operazioni, fossero i suoi schiocchi continui e fastidiosi.

Quando dei suoi ordini non c’era stato più bisogno, la sua voce s’era sollevata tra i brusii, per un’ultima volta, tuonando «Zucchetta!», e dalla stiva era spuntata un’arzilla vecchietta dal viso buono e dai gesti goffi. L’età piegava irriverente il suo corpo bassetto e pienotto. Sfoggiava un nasone pronunciato, su cui si adagiavano due grandi occhi azzurri colmi di dolcezza ed i suoi capelli argentati se ne restavano raccolti sulla nuca, in una morbida crocchia. Le sue vesti candide profumavano di lillà e, per quanto umili, le conferivano un decoro che suscitava il pieno rispetto di chiunque si trovasse ad osservarla, anche solo per pochi istanti. Scatcut l’adorava. Era la sua indovina, la sua confidente, ma un tempo era stata la sua balia e a lei doveva la felicità della sua infanzia. Molte volte aveva provato a dimostrarle la sua stima regalandole pregiate sete dai colori pastello, merletti e cappellini dalle composizioni floreali, ma Zucchetta portava solo lunghe gonne scure e camicette bianche, su cui poggiava una mantellina di lana per ripararsi dagli spifferi.

Quella donna, così innocente e disarmante per il suo candore, una notte era stata baciata dagli dei, che avevano aperto la sua mente al futuro, rendendole visibile ciò che per gli altri era solo opinabile. Per poter usufruire dell’incredibile potere, ella ascoltava le preoccupazioni di chi chiedesse il suo consiglio e, pian piano, la realtà mutava forma, donandole immagini di una vita ancora non vissuta. Purtroppo gli anni iniziavano a pesare: i ragionamenti sembravano sempre più incoerenti e l’udito faceva cilecca. Così capitava che frasi come “la scoperta di un tesoro” si trasformassero in “la coperta di Isidoro” e spesso “una fugace via di fuga” veniva interpretata come “una focaccia con lattuga”, innescando processi di cui non è il caso accennare.

Scatcut, per quanto fosse ormai il caso di tornare al buon vecchio metodo della “botta di culo”, continuava imperterrito ad usufruire dell’anziana signora e su quest’argomento era particolarmente suscettibile. Nessuno osava criticare l’operato di Zucchetta, perché si rischiava dalle frustate alla morte. Il motivo di tanta ostinazione era comprensibile: il Capitano era sempre stato particolarmente superstizioso e non credeva fosse saggio sminuire capacità di derivazione ultraterrena. Certo, tali doni erano stati elargiti quasi 60 anni prima, ma non si sentiva ancora pronto ad affrontare l’ira divina. Preferiva arginare i danni, facilmente intuibili, delle interpretazioni errate dell’indovina piuttosto che il malumore di un dio che li avrebbe potuti scaraventare sul fondo del mare con uno sbadiglio.

«Oh, buongiorno caro. Dormito bene?», gli aveva chiesto la vecchina salutandolo, mentre strofinava energicamente le mani tra loro.

«Ehm... Buongiorno Zucchetta!», aveva risposto lui con tono imbarazzato, fulminando con lo sguardo chiunque osasse sorridere a tale scambio di smancerie.

«Ma che faccia pallida! Non hai preso il brodino caldo che ti ho fatto mandare su dal cuoco ieri sera?».

«Non è certo questo il momento di parlare di brodini!».

«Hai mangiato due sedanini? Brutto birbantello!», l’aveva subito ripreso la donna, che sembrava affatto preoccupata dal suo tono autoritario. «Se continuerai così, finirà che ti sciupi. Ti verrà un’altra volta il raffreddore e dovrò passare tutta la notte a farti spugnature. Ti ricordi quella volta come piangevi? Quante lacrime per un naso rosso...».

«Zucchetta, per l’amor del cielo, ero solo un bambino! Puoi smetterla di scalfire con le tue parole il mio potere su questa nave?».

«Devo scaldare il purè di fave? Va bene, bastava dirlo che preferivi il purè di fave, non ti avrei fatto mandare il brodino», seccata dalla lamentela.

«Ma...».

«Ti ci faccio mettere anche due pisellini freschi? Sì?».

«Ma...».

«E un bel dolcetto per il mio bimbo bello che ha deciso di fare la pappa. Bravo cucciolotto mio. La tua tata adesso scende e dice a quel cattivone del cuoco di sbrigarsi con il rancio. Non ti preoccupare, mi faccio dare anche un bel fazzoletto, così non ti sporchi tutto, che poi ti si macchia il colletto!».

«Che Teracon ci aiuti!».

Senza riuscire a fare alcunché, Scatcut aveva visto sparire la donna ed un sospiro era fuoriuscito spontaneo dalle labbra schiuse. Joy Rospo si era avvicinato in quel momento pronto a dir qualcosa mentre, piuttosto agitato, gesticolava storcendo il muso.

«Caca... Capitano! Caca... Capitano!».

«Non tollero commenti in merito, marinaio. Fila al tuo lavoro, prima che ti faccia ingoiare la lingua».

«No no no... Capitano! No no no... Non ce ce... C’entra, Capitano».

«“No, no, no”... Smettila con questa lagna, ora basta! Martino, venti frustate per questo scocciatore».

«Agli ordini, Capitano!».

«Ma no no... Non era per qu qu... Questo, Capitano. Una na... Una na... Una na...».

«Cosa sono questi mugugni? Martino, ho detto forse che si poteva cantare a bordo?».

«No, Capitano. Canto e risa sono proibite a bordo della Benson, Capitano».

«Allora quaranta frustate per questo lavativo! Non tollero simili sollazzi durante un appostamento».

«Ma ca... Ma ca... Ma ca...Ma, Capitano, una na... Una na... Una nave!».

«Una cosa? Una nave? Dove?».

Roy aveva quindi sollevato il dito tremante indicando, poco più in là, un piccolo naviglio dalle vele ripiegate che si avvicinava al loro nascondiglio.

«Martino, lì c’è una nave!».

«Ho notato, Capitano».

«Datemi il cannocchiale. Datemi immediatamente il mio cannocchiale! Martino, dove hai messo il mio cannocchiale?».

«Sul vostro collo, Capitano!».

«Martino, ti ho già detto mille volte che non desidero tu tocchi le mie cose! Ti frusterò personalmente per aver disobbedito».

«Ehm... Ma veramente, Capitano...».

«Cosa ci fai lì impalato? Avvisa la ciurma, controllare la rotta del naviglio, spiegare le vele. Forza, muoversi! Zucchetta, dov’è finita Zucchetta?».

«Ooh, eccomi qui! Non c’è mica bisogno di urlare tanto. Ho portato il purè, eccolo qui. Sei proprio come il tuo papà: quando aveva fame non capiva più nulla ed iniziava a sbraitare contro tutti».

La donnina era tornata, nel frattempo, portando una grossa ciotola di legno. Rimestandone il contenuto fumante, si era avvicinata al Capitano ed aveva preso una cucchiaiata di quel pastoso beverone, cercando di accompagnarlo alle sue labbra.

«E vola, vola, vola l’uccellino. Vola e va’ su quel musino. Apri la bocca. Su, su... Fai “aaaa”...».

«Per tutte le balene, non adesso! Ma ti sembra questo il momento?».

«Tesoro mio, non so davvero. Non ho mai avuto la lebbra, ma non tormentarti. Non credo davvero possa venirti con del misero purè di fave».

«Questo è il colmo!».

«Ma come potrebbe essere al forno? Non ce l’abbiamo il forno. È stufato».

«Non ho detto forno, ho detto colmo!».

«Lo preferivi al forno?».

«Non lo preferisco al forno!».

«Molto meglio, perché questo è stufato. Non ce l’abbiamo il forno!».

«Ma ti sei forse ammattita? Ti prego, abbi pietà! Adesso mettiamo da parte il purè. Ecco, lo poggiamo qui, accanto al timone. Così! Sì, e adesso parliamo di cose serie. Vuoi? La vedi quella nave laggiù? Ecco, brava. Ora, interroga gli dei e chiedi se ha un bel bottino da rubare. Se ci sono solo mercanti a bordo, se possiamo partire all’arrembaggio».

«Ci vuoi anche del formaggio? Posso chiedere».

«Zucchetta, la nave. Ti prego, la nave».

«Ma c’è una nave! Chissà chi c’è a bordo...».

«Sì, è vero. Come avrò fatto a non notarla? Meno male che ci sei tu! E, dimmi, cosa pensi possa portare?».

«E io che ne so?».

«Zucchetta, che vuol dire che ne so? Devi chiederlo agli dei!».

«Nei? Ma no, sarà un po’ di sole. Smettila di fare l’ipocondriaco e torna di buon umore».

«Zucchetta, per l’ultima volta, chiedi agli dei che si nasconde nella nave».

«E va bene, va bene. Fammi spazio, ho bisogno di spazio!».

Guardandosi tra loro, abbastanza incerti, i tre si erano allontanati di poco dalla vecchietta, che nel frattempo distendeva le braccia, chiudeva gli occhi ed iniziava a mormorare a denti stretti parole impossibili d’afferrare.

«Capitano, siamo sicuri? Si ricorda l’ultima volta? La storia delle lumache di mare?», bisbigliando ad un orecchio di Scatcut.

«Martino, smettila di essere sempre così pessimista. Fu una svista, stavolta non può accaderci nulla. Siamo armati, quello è un banalissimo mercantile e non ci sono barili di salamoia per miglia e miglia».

«Già, ricordo. Un’esperienza raccapricciante. Non credo potrei sopportarlo nuovamente».

«Ssh! Fa’ silenzio. Guarda... Sta avendo una visione».

Una serie di mugugni imbizzarriti aveva preso ad uscire dalle labbra raggrinzite della donna, che nel contempo portava entrambe le mani alla testa ciondolante.

«Ci siamo, ci siamo Martino!».

«Sì, Capitano...».

«Zucchetta, vedi qualcosa?».

L’indovina, colta da improvvisi tremori, aveva avvicinato le mani alle labbra. Queste si arricciavano, si piegavano, si aprivano e da esse ne uscivano degli “Aaah”, “Eeeh”, “Oooh” piuttosto striduli.

«Me lo sento. Me lo sento Martino. Questo è il momento!», aveva aggiunto Scatcut, arpionando, per la foga, il braccio del nostromo.

«Eeeeecciù!», aveva infine starnutito la vecchina e gli sguardi colmi di apprensione dei presenti si erano magicamente dileguati, lasciando spazio alla desolazione.

«Capitano, io avevo provato ad avvertirla ma...».

«Lascia stare, lascia stare Martino. Zucchetta, dimmi, tutto bene?».

«Povera me... La vita di mare non è adatta a queste vecchie ossa».

«Martino direi, nel dubbio, di lasciar perdere. Potrebbe essere una nave spia. Magari dietro quegli scogli ci sono tre galere della Marina Imperiale pronte a fare fuoco!».

«Allora faccio ammainare le vele, Capitano».

«Sì e a questo punto facciamo scendere i marinai per il pranzo».

«Ohh, questo è un vero peccato. Comunque hai ragione, l’ora del pranzo è vicina e non possiamo certo tardare per stupide storie di tesori e strani medaglioni», aveva concluso la donna, notando nessuno fosse più interessato alle sue predizioni.

La mano pronta del Capitano, al sentire le sue ultime parole, s’era fiondata sul torace di un Martino speranzoso e l’aveva bloccato prima che potesse raggiungere la ciurma, per narrare di come, per un raffreddore, si fossero stavolta salvati dalle improponibili fantasticherie della vecchietta.

«Hai detto tesori?».

«Sì, ho detto tesori. Ora scendiamo, la mia ulcera continua a darmi noie».

«Quali tesori?».

«Ma non saprei, frugoletto, non è che ci fosse qualcuno a cui chiedere».

«Ma li hai proprio visti con i tuoi occhi?».

«Ranocchi? No, non mi sembra ci fossero ranocchi. Credi possa avere una fettina di quella splendida crostata di more?».

«Martino, c’è un tesoro! Continua Zucchetta, di che medaglione parlavi?».

«Ma non saprei, una sorta di cerchio dorato con uno strano simbolo sopra. Lo teneva al collo, era come un uccello, un drago, un serpente marino...».

«Ti dispiacerebbe raccontarmi tutto? E smettila di allontanarti, per la trippa di Teracon! Cos’hai visto?».

«Che altro dire? C’era una nave, tanti prigionieri, qualcuno con un medaglione al collo e... Null’altro!».

«E il tesoro?».

«Quale tesoro?».

«Non c’era un tesoro?».

«Dove? Io mi sono portata solo la camicia da notte e le scarpe».

«Nella nave che hai visto!».

«No, caro, nella stiva non ho visto! Ma non deprimerti», donandogli un dolce buffetto sulla guancia, «sono certa che salterà fuori. Tu sei così disordinato!».

«Martino, è lui. Non posso crederci, siamo sulle tracce del tesoro di Christalia!».

«Capitano, io non darei giudizi affrettati».

«Affrettati? Ma, hai sentito?».

«Per mia sfortuna ogni singola parola, Capitano».

«La leggenda dei cristalli di Ambramante...».

«E cosa sono?», aveva quindi chiesto Zucchetta, non capendo a cosa mai si riferisse il Capitano.

«Sono dei rubini. I più grossi rubini che siano mai stati trovati», si era azzardato a rispondere Martino, ma il Capitano l’aveva corretto subito.

«Non sono solo dei rubini, ma potenti armi magiche! Erano cristalli dello scettro di Astriodo, intrisi del suo stesso sangue. Gli permettevano di risucchiare l’energia dei suoi nemici. Stupido maldestro, si innamorò di Ambramante, protettrice della buona pesca e della navigazione, che riuscì a rimbecillirlo sino a rubargli ogni singolo rubino. Poveraccio! Provò anche a riprenderseli, ma non ci fu verso. Se ne stanno lì tra i flutti, protetti dalle sirene. Martino, conosci anche tu questa storia?».

«E chi non la conosce? La storia del Re di Laggiù e del tesoro che non c’è più. Un sacco di dicerie senza senso. Una filastrocca per bambini».

«Io non la conosco!», aveva risposto Zucchetta, così il nostromo aveva continuato il racconto di Scatcut che, nel frattempo, annuiva ad ogni parola.

«Ma sì, pare che sia stato risvegliato addirittura lo spirito della notte, Ghassan, per recuperarla. Una creatura spaventosa, ma neanche i suoi poteri sono bastati per riportare i cristalli al dio. Ambramante l’ha ucciso con un pugnale sacro e ne ha distrutto la nave. Pare che il relitto sia stato trovato dal Re di un’isoletta sperduta in mezzo al mare e da lì sia passata di mano in mano sino a quando tre pirati non hanno deciso di imbarcarsi per il Primo Regno. Ambramante è impotente sulla terraferma, ma questo è il suo Regno. Li ha travolti la tempesta ed il tesoro è tornato alle sirene, nelle profondità del Regno degli Abissi, un luogo chiamato Christalia. È la città del Re del mare... Ribadisco, solo una filastrocca».

«Una filastrocca? Tu credi davvero sia solo una filastrocca? E allora cos’è questo?», aveva chiesto il Capitano con gesto trionfante, estraendo dalla giacca una pergamena ingiallita e ripiegata. Fiero, l’aveva sventolata sotto il naso aquilino del suo nostromo ed un ghignetto pieno di soddisfazione gli aveva illuminato il viso.

Martino aveva sfilato quel brandello misterioso dalle dita dell’uomo e l’aveva spiegato studiandone l’immagine sbiadita, segnata con china porporina.

«Ma... Cos’è?».

«Come sarebbe a dire cos’è? Una mappa, citrullo!».

«Una mappa? E di cosa?».

«Leggi sopra».

«Il tesoro di Chirstala...».

«Leggi bene, caprone!».

«No, è scritto proprio così. Capitano, non vi eravate ripromesso di non comprare più nulla da quel robivecchi di Haleck?».

«Il solito prevenuto! Non vedi tutti quei simboli? Non riconosci i pilastri delle porte degli Abissi?».

«Capitano, potrebbe averla disegnata da solo per quanto ne sappiamo noi!».

«E se così non fosse?».

«Non potremmo comunque accedere al Regno di Christalia».

«Ed è qui che ti sbagli: Zucchetta ha visto un medaglione. Quando ha detto che sopra c’era disegnato un serpente di mare ho capito che era fatta. Quello è il medaglione che la Regina dei mari fece forgiare per il popolo del Secondo Regno. L’unica chiave d’accesso per le porte di Christalia. Zucchetta, ripeti cosa hai visto».

«Cosa ho visto?».

«Il medaglione!».

«Che medaglione?».

«Quello del tesoro...».

«Quale tesoro?».

«Lascia stare! Martino, ormai la visione è lontana. Zucchetta è in evidente stato di confusione, ma non sarà questo a fermarci».

«No, sarà lo spirito di sopravvivenza».

«E rinunciare a tutto quell’oro?».

La risposta di Martino sembrava ritardare.

«Allora, se non se ne fa più nulla, inutile darsi pena piccino mio», erano state le parole dell’indovina che, approfittando di quella breve pausa tra i due, aveva manifestato la sua insofferenza per tutte quelle chiacchiere inconcludenti. «Tanto vale andarsene a mangiare!».

«Ma non capite che forse su quella nave c’è la soluzione del mistero? Il tesoro è tornato alle sirene. Sono loro a custodirlo. Chiunque abbia la chiave può varcare la soglia del loro mondo e nulla possono fare per fermarlo!».

«Capitano, inoltrarsi negli abissi non è cosa così semplice e nulla ci garantisce sia davvero di quel medaglione che si parli».

«Martino, è solo un piccolo naviglio. Se lo attaccheremo non riuscirà a difendersi. Potremmo trovare solo carichi di spezie, ma se lì ci fossero i rubini di Ambramante...».

«Capitano, anche fosse così non abbiamo branchie! Come potremmo resistere sott’acqua per più di due minuti?».

«A questo penseremo dopo... E se ti facessi dono di una delle pietre? Tutti possono togliere forza ad un dio, ma ne basta una sola per risucchiare i poteri di ogni singolo uomo».

«Chincaglieria! Non so che farmene».

«E se invece tenessi per me i rubini e lasciassi a te ogni singola moneta o gioiello del tesoro?».

«Si può sapere cosa state aspettando, razza di sfaticati?», aveva rapidamente urlato il nostromo Martino, rivolgendosi alla truppa. «Chi vi ha dato l’ordine di ammainare le vele? Un naviglio e il suo bottino ci attendono oltre quel gruppo di scogli. Muovete le vostre chiappe sudice e prepararsi all’arrembaggio!».

Convinto Martino, il Capitano si era fiondato sull’imbarcazione con tutta la foga della sua giovane età. Tutti i marinai erano con lui, armati sino ai denti e pronti alla gloria o alla morte. Solo due mozzi erano stati lasciati ai cannoni: Ciciscalca e Borrello, i quali avevano il compito di colpire il naviglio in caso di ritirata della ciurma. L’avidità, però, è mal comune tra le file dei rematori di una caracca. Borrello aveva atteso che tutti fossero scesi dalla Benson e, d’accordo col compagno, aveva caricato ogni cannone per affondarla insieme al loro Capitano e l’intera truppa. Se fossero stati gli unici superstiti, il bottino di Scatcut sarebbe stato la loro eredità e gli avrebbe permesso di ritirarsi su una di quelle isolette dalle spiagge bianche della costa settentrionale, per poter vivere tra gli agi e le comodità.

Forse l’agitazione, forse l’impreparazione, forse l’apprensione, ma nel caos generale ad essere colpita era stata una nave che fino ad allora non aveva attirato alcuno sguardo: un veliero reale.

In men che non si dica il naviglio era stato catturato insieme ai suoi agguerriti ospiti ed entrambe le ciurme legate ed imbavagliate, in attesa di responso.

Il Capitano dell’esercito di Sua Maestà l’Eletto camminava su e giù per la prua lasciando tintinnare il pesante medaglione su cui si stagliava il simbolo del Primo Regno: l’Aquila a sei ali.

Martino, legato all’albero maestro insieme al suo Capitano, si era lasciato sfuggire un unico commento: «Il medaglione dei cristalli di Ambramante?», e Scatcut si era limitato a chiedere alla vicina Zucchetta: «Un uomo reggeva un medaglione con uno strano serpente acquatico?».

Zucchetta, dal canto suo, ancora non aveva ben chiaro cosa stesse accadendo. Laconica, aveva chiesto a sua volta: «Uomo? Quale uomo?».

Il risultato dello spiacevole episodio era stato assai triste: l’intera truppa e l’equipaggio del naviglio erano stati trasferiti nelle prigioni di Radiz’miran ed un rapporto dettagliato era stato lasciato sulla scrivania reale, in attesa di approvazione. Nell’esaustivo riepilogo, però, mancava la segnalazione di alcuni eventi di particolare rilevanza: la fuga di Borrello e Ciciscalca, grazie ad una scialuppa di salvataggio e la scomparsa di due anziani ed una cesta dal naviglio, seguiti a breve distanza da un militare del vascello reale, allontanatosi in sordina durante il trambusto generale.

 

Erano passati vent’anni da quel giorno, eppure i due stavano ancora lì a cercar di chiarire chi avesse sbagliato. La cosa assumeva importanza non solo perché avevano rischiato di passare il resto dei loro giorni in galera, ma soprattutto perché, per mettersi al riparo, avevano dovuto lasciare il bottino sulla nave. Finalmente oggi, dopo tanto, un barlume di speranza sembrava voler porre fine ai lunghi diverbi che da anni li teneva occupati. Avevano la possibilità, con quel cannone, di riprodurre l’incidente e di chiudere quel triste capitolo della loro esistenza.

«Dicevamo?», aveva chiesto Ciciscalca, il quale iniziava a temere di aver perso il filo e che, preoccupato, si grattava il capo con le unghie annerite.

«Bene, allora io mi trovavo qui. Lì a sinistra Jack Manomozza e il cannone era... No, non era qui, era leggermente più su. Aspetta che lo sistemo», aveva proseguito Borrello.

«No, Jack Manomozza era a destra e a sinistra c’era la scala che portava nella stiva».

«Non era così, era il contrario, quindi il cannone non sta messo bene. Tu mi hai chiamato e io ho girato a destra».

«Rimetti subito il cannone dov’era. Stava bene come stava!», perdendo le staffe.

«No, perché quando la scialuppa ha iniziato a virare tu hai detto gira a tribordo e io ho girato di qui!».

«No, tu hai girato a babordo quindi stava bene dove l’avevo messa io!».

«Credi che sia una passeggiata spostare quest’affare?», sbuffando. «Smettila di toccarlo e rimettilo dritto!».

Un terribile ed improvviso boato aveva posto fine al battibecco, coprendo entrambe le voci. Il melone era stato lanciato dal cannone con forza tale da spappolarlo in mille pezzi. Brandelli rossastri che si sparpagliavano gocciolanti in ogni direzione loro offerta con tale cacofonia di giravolte e piroette da rendere impossibile capire quale fosse stata l’iniziale direzione dell’arma e quale la traiettoria o anche solo il bersaglio preso di mira.

Gli sguardi esterrefatti dei due vecchietti, che con gli occhi sgranati seguivano le numerose parabole disegnate dalla scia del dolce succo, commentavano in modo assai eloquente l’angoscia di quel momento così bramato eppur così deludente. Più di vent’anni ad attendere una risposta e, quando finalmente si offriva loro una possibilità, la sorte giocava l’ennesimo tiro beffandoli con un fendente al cuore. Richiudendo le bocche bavose e sdentate, erano rimasti attoniti ad osservare punti indefiniti dello spazio, avvolti dal fumo sputato fuori dal cannone. Non appena l’ultimo frammento di una scorza annerita dall’esplosione si era posata sul suolo, improvvisamente e con voce quasi cadaverica, Borrello aveva commentato: «E ti pareva che non rovinavi tutto?».